Cari amici e care amiche,
iniziamo un nuovo anno scolastico mentre il “Giubileo della speranza” volge al termine: lo chiuderemo nella nostra Diocesi di Lucca nel pomeriggio di domenica 28 dicembre. Guardando ciò che accade intorno a noi – guerre, conflitti commerciali, episodi di violenza nei contesti più diversi, denatalità e disuguaglianze crescenti… - verrebbe da chiedersi se coltivare speranze sia ancora sensato, o se non sia più ragionevole prendere atto della desolante realtà e provvedere esclusivamente alla propria dignitosa sopravvivenza.
Questo interrogativo è davvero decisivo, in modo particolare per chi, avendo tutta la vita davanti, deve decidere come impiegarla e in che modo prepararsi ad attuare quello che pensa di fare. La scuola, evidentemente, rientra in questo processo, perché la sua finalità è quella di introdurre le nuove generazioni alla realtà, aiutandole ad acquisire gli strumenti necessari per comprenderla, abitarla e trasformarla. Non si tratta solo di trasmettere e acquisire nozioni, ma di abilitare a stare al mondo in modo consapevole, efficace e responsabile.
Perciò le intenzioni che motivano i giovani a frequentare la scuola e gli adulti ad animarla – ideali, progetti, valori, desideri… - non sono un fattore di poco conto. Insegnare, accompagnare, apprendere, comprendere, sperimentare… risultano azioni interessanti e degne di impegno quando se ne coglie il significato rispetto a un obiettivo. Se questo manca, oppure se è debole o meschino, non basteranno bravi insegnanti o una bella scuola a rendere sensate le cose che avvengono in classe; ci si riduce facilmente – da una parte e dall’altra - a tirare a campare, senza passione e senza troppe aspettative.
Qualche giorno fa Papa Leone ha proclamato santi il ragazzo milanese Carlo Acutis e il giovane torinese Pier Giorgio Frassati. Sono vissuti in epoche diverse: Pier Giorgio negli anni del primo dopoguerra, in un Paese segnato dalle conseguenze del conflitto e dall’ascesa del fascismo; Carlo è molto più vicino a noi, già nell’epoca dei computer e della rete. Hanno però in comune una caratteristica: la grandezza dei loro sogni e la forza dei loro ideali. Pier Giorgio diceva di non voler “vivacchiare, bensì vivere”, non rinunciando a portare avanti le proprie idee anche quando incontrava ostilità e opposizioni; Carlo non voleva diventare una “fotocopia”, pensando e agendo secondo i dettami delle mode e della maggioranza, ma rimanere un “originale”, comportandosi sempre in modo coerente con il proprio pensiero. Perciò entrambi hanno vissuto lo studio - a volte con fatica - come strumento per poter realizzare i propri progetti di bene. Non sono stati sempre “studenti modello”, anche perché c’erano tanti altri interessi che ne occupavano il tempo, ma sono stati studenti appassionati, motivati a impegnarsi e a vivere al meglio le opportunità offerte dalla comunità scolastica. Hanno vissuto la scuola coltivando grandi speranze, e se la morte ha loro impedito di realizzare i grandi progetti che avevano in cuore, hanno comunque lasciato una testimonianza di una vita di assoluto valore.
Carlo e Pier Giorgio ci suggeriscono che il primo ingrediente della scuola sono gli ideali, i valori, i sogni… quelli degli adulti, impegnati a “generare” attraverso l’educazione e la cultura, e quelli dei giovani, tesi a scoprire la propria vocazione e il proprio posto nel mondo. Non può essere tranquilla una scuola così, perché queste cose fanno discutere, impegnano a ricercare e suscitano dibattito: non sono scontate o banali e accade spesso di non trovarsi d’accordo. L’alternativa, però, è una scuola “asettica”, che si limita a trasmettere nozioni e competenze, raramente capaci di motivare e di entusiasmare. A questo conduce anche una certa visione della laicità, che intenderebbe limitare al minimo indispensabile i riferimenti etici e religiosi, per affermare una neutralità che elimini ogni possibile conflitto, producendo però un desolante appiattimento.
Non c’è posto per la speranza in una scuola così, perché le logiche che la dominano sono quelle del “vivacchiare” e non del vivere, del conformismo e non dell’originalità; una scuola profondamente demotivante e schiacciata sul presente: la sufficienza, lo stipendio… col minimo sforzo e le minori responsabilità. Ma una scuola senza speranza priva i giovani di qualcosa di fondamentale, perché loro più di tutti hanno bisogno di essere incoraggiati e accompagnati a guardare con fiducia al futuro, convinti di avere la possibilità di rendere il mondo migliore di come lo hanno ricevuto e di realizzare i sogni di felicità e di bene che hanno nel cuore.
Il Giubileo invita anche la scuola a “rianimare la speranza”, mettendo al centro ideali, valori e sogni, e proponendo l’insegnamento e lo studio in relazione ad essi, come occasione per scoprirli, comprenderli e diventare capaci di realizzarli. In questo modo l’apprendimento appare un primo, fondamentale, passo verso il futuro, come la partenza di un pellegrinaggio: la meta è ancora lontana, ma mettersi in cammino significa vivere concretamente la speranza di raggiungerla; ogni passo, ogni azione, ogni momento… si orientano alla meta e dicono che essa è sempre un po’ più vicina. Si diventa, felicemente, “pellegrini di speranza”.
Alle scuole di ispirazione cristiana, cui rivolgo un particolare pensiero di vicinanza e simpatia, spetta testimoniare la bellezza di un’educazione non schiacciata sul vivacchiare e sull’omologazione, ma entusiasta nel coltivare i talenti e le aspirazioni delle nuove generazioni. Questo compito, insieme difficile ed esaltante, è la vocazione più autentica di ogni opera educativa cattolica.
Voglio augurare a tutti che l’anno scolastico che inizia sia davvero un’ulteriore tappa di un cammino rivolto con fiducia al futuro, di un pellegrinaggio di speranza.
+ Paolo Giulietti